Riscoprire la gioia attraverso i Pink Floyd

Parlare della gioia tra riflessioni, musica e arti visive, nel quarantesimo anniversario del leggendario album dei Pink Floyd Wish you were here. Un’operazione non certo facile quella di don Nisi Candido, direttore dell’Istituto Superiore di Scienze religiose “San Metodio”, a conclusione dell’anno accademico che il San Metodio ha voluto dedicare in tutte le sue attività collaterali al tema della gioia.
“La gioia – spiega don Nisi Candido – può essere pensata come la propria realizzazione individuale, o come la soddisfazione dei soli bisogni primari, o come il rapporto pacificato con gli altri e con l’ambiente circostante, o come la comprensione dei misteri più profondi della vita, come un dono dall’alto e così via”. Nella suggestiva location del cortile San Metodio di via della Conciliazione, la serata evento intitolata “La nostalgia di una gioia perduta”, con la collaborazione tecnica di Mariangela Maresca e Fabio Fortuna, ha riscosso un incredibile successo. La gioia riguarda ogni essere umano, credente o non credente e può essere affrontata da diverse prospettive. Wish you were here è frutto anche della nostalgia dei componenti della band 
per il drammatico allontanamento del primo leader. La gioia diventa così il frutto maturo, ma anche inatteso, di un percorso di vita problematico e misterioso, ma anche esaltante e duraturo. 
“Quando nella stanza intima della coscienza si formula la domanda «Sono veramente felice?», si attivano una serie di facoltà che contribuiscono alla risposta: la memoria, il realismo, la speranza, il coraggio. La scommessa – spiega don Nisi – è provare ad attivare queste facoltà ed altre ancora, camminando a piedi nudi sul tappeto offerto dalla musica dei Pink Floyd: la musica, più che le parole. Come è tipico della band la preferenza delle evocazioni suggerite dai suoni alle spiegazioni imposte dalle parole. Note che schiudono mondi anzi universi, e abbattono le barriere – il muro, direbbero i Pink Floyd – che ciascuno eleva intorno a sé impedendogli di comunicare e in definitiva di essere felice. Una musica universale nel senso di capace allargare gli orizzonti fino ai confini dell’universo, e totalizzante nel senso di coinvolgente dell’intera persona. La musica serve da ambiente per riflettere sul tema esistenziale della gioia: un ambiente familiare e stimolante come quello di questo cortile, il cui tetto è scoperchiato sull’universo per farci riflettere sul cielo stellato lassù come sulla nostra interiorità quaggiù”. 
La storia dei Pink Floyd inizia alla fine degli anni Sessanta in Inghilterra. “Tutto si può far iniziare nel 1966. Roger Waters, Richard Wright e Nick Mason sono tre giovani studenti della Facoltà di Architettura del Politecnico di Londra. A Waters, Wright e Mason si aggiunge presto Roger Keith “Syd” Barret, uno studente della Facoltà di Arte.Con Barrett la band cambia subito nome e prende quello di Pink Floyd, dai nomi di due musicisti americani Pink Anderson e Floyd Council”.
Don Nisi fa ascoltare “Atom heart mother suite” (ovvero la gioia come evoluzione). Poi “Echoes” (ovvero la gioia come armonia delle complessità): una piccola, “ma istruttiva lezione di vita, non c’è gioia senza l’armonia tra il senso dell’infinito e l’obbedienza al particolare; senza una rinuncia al consenso a tutti costi; senza il rischio di essere se stessi; senza il coraggio di cambiare ritmo”. 
Quindi è il turno di “Have a cigar” (ovvero la gioia di essere se stessi). “The dark side of the moon è stato definito “l’album perfetto”: nessuna traccia è sotto la linea della Arcidiocesi di Siracusa perfezione. Raggiunge il secondo posto nella classifiche inglesi e il primo in quelle americane dove resterà tra i primi cento per i successivi quindici anni. Un successo planetario che coincide con la consacrazione definitiva del gruppo. Ma la gioia vera è lontana dal venire. Potremmo dire così: la felicità non è un episodio, ma uno stato. La gioia vera deve fare i conti con lo sforzo di renderla una condizione radicata e stabile. Qui la gioia è la capacità di smascherare le lusinghe del mondo – soprattutto a quelle del denaro – e di non rimanere soffocati dalle aspettative malsane, per non rinunciare ad essere semplicemente se stessi”. 
E poi “Wish you were here” (ovvero la gioia come elaborazione dell’assenza). Quindi “Shine on you crazy diamond” (part VI – IX): “il “diamante impazzito” non può non far pensare a Barrett. Qui la gerarchia delle priorità sembra rovesciata: la musica non deve stimolare a correre, ma deve convincere a fermarsi. Solo così si può godere del fruscio del vento, della vista della luna, dello scorrere delle nubi, delle luci della città, delle montagne e delle valli, dei boschi e dei campi di grano, di un vulcano in eruzione, dei lapilli e del magma, dei pesci che sfiorano la barriera corallina e delle isole lontane, dei fiumi e delle cascate, del sole che sorge e tramonta dietro il mare. Aria, terra, fuoco e acqua. Qui la gioia passa attraverso la meditazione sulla bellezza del creato”. Infine “Shine on you crazy diamond” (part I- V). “Questa è la vera gioia: arrivare in alto e rimanerci, anzi provare a salire ancora. Non accontentarsi delle vette raggiunte; provare a rendere l’ascesa non una conquista occasionale, ma un atteggiamento stabile. Imparare a cambiare postura: dall’essere reclinati verso il basso, al guardare sempre in alto. Passare dall’esercizio muscolare della corsa in orizzontale, alla condizione sapienziale del silenzio profondo. Qui la gioia – se di gioia si può ancora parlare – è una condizione raggiunta a caro prezzo, sulle ceneri di un dolore che diventano fertilizzante. Una gioia che non è più nel diamante di cui avere nostalgia, ma nellavisione di un futuro nuovo. Forse anche la fede più che dei realisti è dei coraggiosi e dei visionari. E vengono in mente le parole della Lettera agli Ebrei: «La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» (Eb 11,1)”.