“Che Dio ci faccia comprendere un giorno che siamo tutti fratelli”. E’ questa la frase che padre Gigi Maccalli ha detto al capo del villaggio che lo aveva tenuto nascosto per mesi. Era arrivato il momento della sua liberazione e alcune ore dopo sarebbe rientrato in Italia. Il padre missionario della provincia di Crema, 59 anni, della Società Missione Africane, era stato rapito in Niger al confine col Burkina Faso, nella notte tra il 17 e il 18 settembre del 2018, da miliziani jihadisti. Prestava la sua opera nella parrocchia di Bomoanga, diocesi di Niamey. Dopo due anni, l’8 ottobre del 2020, la liberazione in Mali. La testimonianza di padre Gigi è stata al centro della giornata organizzata dal Centro missionario diocesano guidato da don Salvo Musso al Palazzo San Zosimo, in Arcivescovado.
Con padre Maccalli anche padre Salvatore Cardile del Pime, missionario per molti anni in Brasile; e Alex Zappalà, direttore del Centro missionario della diocesi di Pordenone-Concordia che ha svolto per 15 anni il suo servizio in Missio Giovani, organismo della CEI per l’animazione missionaria dei giovani. Zappalà ha parlato della sua esperienza in Amazzonia: “I martiri sono tali non solo perché hanno perso la vita ma perché hanno testimoniato fino alla fine. Fare qualcosa per gli altri e importante. Ma essere qualcosa per gli altri è di più“.
Ad aprire l’incontro è stato l’arcivescovo di Siracusa, mons. Francesco Lomanto. “Come ci dice papa Francesco , siamo missionari con l’annunzio e la testimonianza. Dobbiamo prendere coscienza della nostra identità e vivere l’annunzio del Vangelo. Coltivare lo spirito missionario nel nostro cuore. Siamo canali di grazia per portare Gesù all’altro” ha detto mons Francesco Lomanto.
Padre Gigi ha raccontato la sua esperienza missionaria nel Niger e la sua prigionia durata due anni: “Il mio rapporto con Dio si è rafforzato. Ho gridato il mio dolore nella preghiera dei salmi. Anche nel più grande buio c’è una luce. Il Signore mi ha dato un’esperienza profonda da fare“. Il missionario ha raccontato del rapimento, del viaggio in motocicletta per 17 giorni. Delle catene chiuse alle caviglie. Del trasferimento in auto e del deserto, “prigione a cielo aperto“. Per mesi tra le dune. I trasferimenti dal Niger al Burkina Fasu fino all’Algeria. “Mi ero fatto dare un foglietto dove annotavo i miei pensieri. Poi mi hanno dato l’etichetta di un ananas e poi un pezzo di cartone“. Padre Gigi ha mostrato i tre regali che si è portato a casa: “Un anello della catena. Sono riuscito anche ad aprire il bullone, anche se poi lo hanno sostituito con uno più grosso. Questo anello mi ricorda la comunione con tante vittime innocenti. La gente è ostaggio di tanta violenza e tanta paura. Il secondo regalo è questo straccio di stoffa. L’ho annodato, come fosse un rosario e pregavo. Quello che ho scoperto è stato l’essenziale. Ho sofferto la fame, il freddo ed il caldo. Mi mancava poter comunicare. Comunicare amore e vivere la libertà. Ero circondato da sette giovani con kalashnikov, ostaggi di analfabetismo e propaganda“. Il terzo regalo è un oggetto che il missionario ha costruito con le sue mani: “Mi sono costruito una piccola croce in legno. Mi resta il silenzio. Ho fatto esperienza del silenzio e del silenzio di Dio. Ho scoperto in quel silenzio un Dio che è oltre la Parola. La nostra vita è tra dono e perdono. La speranza mi accompagnava. Padre perdona loro non sanno quello che fanno, mi ripetevo. La prima parola di Gesù risorto è Shalom, pace a voi. Il perdono fasciato di silenzio genera la pace. Questo credo fortemente. Mi trovo oggi a testimoniare: non ci sono solo cose da fare, c’è da essere, c’è da essere comunione con questo Dio che ama gratuitamente tutta l’umanità e pregare perchè nasca davvero la pace“.
L’incontro è stato promosso dal Centro missionario diocesano, dalla Caritas diocesana, dall’Ufficio per la Pastorale giovanile, dall’Ufficio Migrantes, dal Centro diocesano per le vocazioni, dal Servizio per la pastorale del turismo, tempo libero e sport.