Giorni intensi soprattutto per la qualità di eventi vissuti: l’incontro con la comunità ecclesiale di Sarajevo (i cristiano-cattolici sfiorano appena il 10 per cento della popolazione); la preghiera dentro alla più antica sinagoga di Sarajevo, costruita nel 1581; l’incontro con l’Imam della prima moschea della città (1526), la preghiera con lui e l’ingresso nel luogo di culto; la struggente visita nel memoriale di Srebrenica, laddove fu compiuto il più atroce dei genocidi dopo la seconda guerra mondiale: 8372 uomini trucidati dalle truppe serbo-bosniache in soli due giorni.
«Fare la pace è un lavoro artigianale: richiede passione, pazienza, esperienza, tenacia. Beati sono coloro che seminano pace con le loro azioni quotidiane, con atteggiamenti e gesti di servizio, di fraternità, di dialogo, di misericordia…». Questo è un passaggio – ha spiegato don Luca – tratto dall’omelia di papa Francesco dettata nello stadio “Kosevo” di Sarajevo, lo scorso sabato 6 giugno davanti a 65 mila fedeli. Parole molto forti, pronunciate da papa Francesco in una terra, come quella di Bosnia-Herzegovina, teatro nella prima metà degli anni ‘90 di una terribile e sanguinosa guerra fratricida, che ha registrato un totale (che, ahimè, resterà sempre provvisorio!) di quasi 105.000 vittime. Sono stati giorni intensissimi per una missione che resterà nella storia della comunità del Santuario e dell’intera città di Siracusa. Non ho alcun dubbio nell’affermare che sono pellegrinaggi come quello di Sarajevo a derubricare il misterioso segno delle lacrime di Maria nei rivoli di luce della solidarietà, della cura e della prossimità della Madre di Dio e Madre dell’umanità, la cui «materna carità si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata» (Lumen gentium, 62)”.
Particolarmente struggente la visita nel memoriale di Srebrenica: “Vedere il reliquiario attraversare e sostare su quella distesa silente di assenza di vita è stata una delle più graffianti esperienze che abbia mai vissuto e che difficilmente potrò dimenticare. In quella occasione il cardinale Pulic ha sottolineato l’importanza della presenza del reliquiario proprio nell’occasione della memoria dei 20 anni dal genocidio ed esattamente presente in quello spazio di lacrime e dolore per un messaggio di speranza e solidarnosc, solidarietà di una donna e madre che ha mescolato il suo pianto con quello di centinaia di donne e uomini. Degna di memoria è la brevissima sosta del reliquiario nel paese di Medjugorie, luogo di grazia, di conversione e penitenza. E poi ancora l’incontro con il monaco ortodosso Daniel della comunità di Mostar e con lui la preghiera dentro alla chiesa (1566), circondati da luminosissime icone evangeliche, sotto lo sguardo della Teotokos”.
«Sono lacrime di misericordia», ha risposto immediatamente il sacerdote Daniel alla domanda per lui sul significato delle lacrime di Maria. E l’importanza delle lacrime viene confermata anche dall’Imam di Sarajevo che raccontava della storia dell’angelo Melek che «pianse, e le sue lacrime di pentimento, deposte in settemila anni di pianto ininterrotto in sette anfore, hanno estinto le vampe dell’inferno». Per ultimo, l’incontro con gli operatori aeroportuali di Mostar che, chiedendo di vedere il reliquiario, non solo per il doveroso controllo ma anche per un breve momento di preghiera, hanno vissuto in religioso silenzio e con occhi lucidi un momento significativo davanti alle lacrime di Maria.